Jennifer Lawrence, il lato positivo del cinema

Se è vero che i personaggi “disadattati” sono spesso materia di assoluto interesse per il cinema, non c’è dubbio che le storie più originali che la settima arte propone attualmente facciano riferimento a storie ed individui lontani dalle attenzioni comuni della società.

Il lato positivo (Silver lining playbooks), di David O. Russell, si inserisce in questa linea, narrando storie di individui che si perdono, si incrociano e si ritrovano. Pat Solitano (Bradley Cooper) è un giovane affetto da disturbo bipolare, il quale, dopo otto mesi trascorsi in clinica per aver aggredito l’amante dalla moglie, ritrova la casa e la famiglia (soprattutto, e purtroppo, un padre fanatico dei Philadelphia Eagles, interpretato da un istrionico Robert De Niro). Il suo obiettivo è ricongiungersi con la moglie: a questo scopo entra in contatto con una comune conoscente, la bella Tiffany, vedova da poco ed ancora in crisi depressiva. Tra i due l’amicizia lascia ben presto spazio a qualcosa di più profondo.

Il film di Russell racconta tematiche drammatiche e angosciose facendo ricorso ad una piacevole e sostanziosa carica di ironia (talvolta anche farsesca) sacrificando ad essa forse una buona parte di originalità (già tante opere hanno descritto ed elogiato la capacità curativa del ballo). Inoltre lo spettatore non americano potrà trovare un po’ complicato immedesimarsi nella passione e nelle logiche sportive ed extra-sportive del football a stelle e strisce.

La carta vincente della pellicola è però la presenza della straordinaria Jennifer Lawrence: la sua interpretazione multiforme di Tiffany è irruente, sfrontata, fragile, seducente, trascinante, complicata ed adorabile, tanto da valerle l’Oscar 2013 come migliore attrice.
Già due volte nominata agli Oscar ed ai Golden Globes, la ventiduenne di Louisville ha all’attivo uno degli inizi di carriera più folgoranti della storia del cinema: talento mostruoso, un viso di bambola su un corpo mozzafiato, una presenza scenica dirompente ed una bravura da veterana, svelatasi in ruoli tutt’altro che facili.

Chi se lo fosse perso, recuperi immediatamente il film Un gelido inverno, in cui troviamo l’allora diciannovenne Jennifer costretta ad occuparsi della madre malata e dei giovani fratellini e nel contempo a dedicarsi alla ricerca del padre pregiudicato. Nel corso della ricerca, la vediamo subire pesanti intimidazioni, psicologiche e fisiche.

Un ruolo ad altissima tensione drammatica, in cui la sequenza nella quale la giovane viene costretta a perlustrare con le mani il fondo del lago alla ricerca di quello che sembra essere il cadavere del padre resta impresso a fuoco nella memoria e non può che suscitare un profondo moto di commozione.

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Insomma è nata una stella. E brilla di una luce nuova ed intensissima.

Diaz, un atto di onestà

Il cinema italiano di denuncia si è tradizionalmente sviluppato lungo due canali narrativi differenti.

Il primo consiste nella descrizione puntuale e documentaristica dei fatti, in cui i registi si riservano una funzione quasi notarile: penso ad esempio, a Il giorno della civetta (Damiani) Il caso Mattei (Rosi) e Gomorra (Garrone).

Il secondo filone è quello in cui si ha un’elaborazione artistica della storia, in cui si registra il confezionamento di immagini con un deciso contributo di stilemi letterari e filmici. In questi casi il film diventa esso stesso oggetto di attenzione ed analisi: pensate a Il divo (Sorrentino) dove la vita e le opere di Giulio Andreotti si trasformano in una sorta di musical dissacrante ed alternativo. Pensate soprattutto all’inarrivabile Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, gioiello del cinema mondiale, reso immortale dalla sulfurea e surreale regia di Petri, dall’interpretazione “sopra le righe” ed iperrealista di Volontè e dall’ossessivo, incalzante motivo-tormentone di Ennio Morricone.

Diaz (non lavate questo sangue) di Daniele Vicari può fungere da anello di congiunzione tra queste due storiche realtà. Il cuore del film è rappresentato dai fatti accaduti a margine del G8 di Genova nel 2001, cioè l’irruzione della polizia nella scuola dove trovava alloggio parte del Genoa Social Forum ed i successivi interrogatori-tortura nella caserma di Bolzaneto.

L’irruzione alla Diaz è narrata con un continuo ritorno della pellicola ad una sequenza chiave: il lancio di una bottiglietta contro una pattuglia di agenti. Questa scena è una sorta di reset automatico che unisce i vari spezzoni del film, intelligente soluzione che consente al regista di mantenere l’unità narrativa e nello stesso tempo di descrivere i fatti della Diaz da differenti angolazioni: prima con gli occhi dei ragazzi, poi con quelli dagli agenti, infine quelli dei responsabili politici dell’ordine pubblico. C’è in verità un grande modello di riferimento, in questo caso: Rapina a mano armata di Kubrick, in cui il fatto centrale del film viene ripreso più volte da differenti punti di vista, come se la pellicola si svolgesse e riavvolgesse in continuazione.

Con questo nobile precedente, il film di Vicari acquista grande spessore artistico: la  relativizzazione del tempo contestuale alla unità narrativa rendono la pellicola un indiscusso un capolavoro di tecnica ed equilibrio.

Inoltre Diaz è un film onesto. Il racconto dei fatti drammatici di Genova avrebbe potuto degenerare in analisi pseudo-politiche o rivendicazioni ideologiche le quali, anche se legittime, avrebbero potuto esporre il film al solito dibattito-teatrino tutto italico sulle ragioni, i torti ed i massimi (o minimi) sistemi del mondo.

Fermo restando lo scandaloso comportamento tenuto delle forze dell’ordine, Vicari fa capire come furono commessi errori anche dai dimostranti che non seppero isolare i manifestanti violenti; d’altra parte anche tra le forze dell’ordine, vi furono agenti squassati da un drammatico dilemma, dibattuti tra il dovuto rispetto di un ordine superiore e l’esecuzione di un comando forse irricevibile.

La forza di Diaz è concentrata tutta sulla esposizione dei fatti, i quali acquistano così una valenza assoluta ed incontrovertibile, e che restano stampati a fuoco nella mente dello spettatore. In questo modo l’intollerabile violenza fisica e psicologica mostrata in molte sequenze non appare né strumentale, né forzata, ma resta come documento incancellabile e credibile di un atto di orrore commesso dalle istituzioni di un paese civile.

Non cancellate questo sangue.

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E non toglieteci questo cinema.