Si rimane sospesi come fossimo tutti in attesa di dare e ricevere un giudizio.
Entrare in numero scandito all’ingresso, solo per gruppi ristretti in non più di 4 alla volta, ci si siede lungo il perimetro di un rettangolo che si affaccia sopra il buio scuro e spigoloso di una scena deserta. In fila indiana, uno accanto all’altro, aspettiamo che prenda inizio la lotta di Koltès.
- Un negro con nome da regnante contro un cane che ulula invisibile.
- Un cantiere che somiglia ad un ring.
- E in alto noi.
In attesa di capire se quella presunzione di saper districare il bene dal male solo per colore e nascita, è veramente possibile. O se invece, in qualità di testimoni privilegiati, abbiamo altre possibilità. Un punto di vista un po’ più alt(r)o rispetto allo scorrere di eventi dentro la notte africana carica di ombre sonore e pungenti. Lacerano pelle svelando inadeguatezza, avidità e vergogna.
Un silenzio trafitto da schegge, luoghi comuni che vanno in pezzi. Illuminati da neon acidi e fragore a scrosci. Raffiche di rumore e lampi e caos sentimentale per personaggi incerti dentro il loro buio, carichi di dettagli e umori.
Il nostro compito quassù, in cima alle impalcature che trasformano un ponteggio in platea, è quello di non farci distrarre. Né dai nostri pregiudizi né dai loro vizi vili. Sospesi non solo a metri dal palcoscenico ma soprattutto sui profili importanti e assoluti di due idee che non accettano repliche. La giustizia e la vendetta.
In questa Lotta, anche al pubblico è affidato un ruolo: Lo sguardo.